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Gli attori dell'Accoglienza

 

  • Primo attore: la famiglia naturale

  • Secondo attore: il bambino

  • Terzo attore: la famiglia affidataria

  • Quarto attore: la famiglia adottiva

  • Quinto attore: la coralità, famiglie che aiutano famiglie

 

Premessa

 

L'accoglienza familiare di un minore è sempre un trapianto e come tale può provocare problematicità e rigetto, ma non tali da indurre a rinunciare a priori alla scelta1. La famiglia accogliente deve riflettere principalmente su una eventuale motivazione sbagliata, quali una speranza di risposta a problemi personali o della famiglia, e il raggiungimento di una ambita collocazione sociale (quella di genitori). Queste motivazioni da sole sono pericolose per la famiglia accogliente e per chi è accolto. Devono essere accompagnate da una forte coesione di coppia e da una consapevolezza condivisa di accettazione dell'accolto per quello che è, e non per quello che si vorrebbe fosse.

La famiglia accogliente deve sempre stare in guardia dai rischi di sentirsi onnipotente e capace di affrontare tutte le situazioni; di vedere la famiglia d'origine come pericolo; dal gravare l'accolto di attese per lui troppo difficili; dal volere un recupero repentino e totale o pretendere di recuperare attraverso di lui propri fallimenti e frustrazioni2.

Non è né opportuno né utile cedere alla tentazione di caricare di un eccesso di interventi il minore accolto. L'efficacia genitoriale poggia sulla struttura in sé della famiglia, più nel vivere quotidiano fatto di gesti e non di discorsi, che peraltro incidono nella comunicazione per non più del 5%. L'educazione e la formazione avvengono per osmosi e non per interventi risolutori, non vi sono “interventi chirurgici” da fare, ma solo un pacato e lento rimodellamento che il minore attua giorno dopo giorno ricostruendo la propria identità nel riflesso della famiglia accogliente3.

La famiglia accogliente deve, per difficile che sia, accettare la famiglia d'origine così com'è, senza giudicarla o pretendere di "redimerla" e senza volerne modificare il ricordo in caso di adozione. Deve accettare e rispettare il bambino con il suo passato ed i suoi limiti; onorare, rispettare e salvare sempre le figure materna e paterna che lo hanno generato; accettare le regressioni che si verificano obbligatoriamente nelle fasi di recupero; saper creare l'ambiente affettivo commisurato alle esigenze del accolto con la pazienza adeguata ai tempi necessari al bambino4.

Ancora oggi, in un mondo socialmente in rapida evoluzione, non esiste un'istituzione migliore della famiglia per l'allevamento dei bambini5. Non esiste istituzione educativa migliore di un'altra famiglia quando la propria famiglia naturale è assente (per incapacità o per assenza fisica)6. Non c'è alternativa alla funzione della famiglia nel recupero dei bambini abbandonati o che provengono da esperienze familiari negative o di emarginazione7.

Se partiamo dall'assunto, provato e dimostrato, che l'accoglienza familiare è la forma migliore per educare i bambini soli, è naturale che la conoscenza dell'accoglienza nelle sue radici fondamentali e negli attori che la attuano è un fatto assolutamente fondamentale. Soprattutto oggi, un tempo in cui la percezione della famiglia è divenuta liquida modellandosi secondo situazioni personali, adattandosi a schemi individuali, avendo perso la rigidità istituzione di un tempo8.

In passato non era necessario spiegare l'accoglienza in quanto trovava ragioni socio-religiose intrise nel vivere quotidiano. Oggi non è così e per questo che l'accoglienza, essendo un'arte di cui si è un po' dispersa la conoscenza naturale, la dobbiamo imparare e conoscere. Dobbiamo soprattutto comprendere i saperi e i sentimenti che fanno muovere gli attori dell'accoglienza familiare: la famiglia naturale, la famiglia affidataria, la famiglia adottiva, il bambino e i servizi, tutti fortemente incidenti nel progetto sociale dell'accoglienza.

La condizione per un ragionamento approfondito deve partire dagli attori devianti o patologici (la famiglia naturale), dall'attore deviato o potenzialmente patologico (il bambino deprivato o violato), dalla famiglia accogliente (potenzialmente a rischio di problematicità). Gli altri partecipanti all'evento sono: gli operatori psicosociali (alla regia) e il giudice del tribunale dei minori (produttore decisionale dell'evento).

Gli elementi che rendono l'accoglienza mutevole e flessibile sono le variabili nell'interpretazione che ciascun attore, comparsa, regista, produttore inserisce, proprio come in una qualsiasi recita che si rispetti. L'espressione può sembrare fantasiosa, ma è reale: l'accoglienza è un'opera d'arte in cui la conoscenza degli strumenti è fondamentale, ma che si esprime con la lettura interpretativa dell'evento di ogni partecipante9. 

 

Primo attore: la famiglia naturale

 

Generalmente la famiglia naturale si rifiuta di riconoscersi come portatrice di una qualche "patologia" e rigetta ogni riflessione e ogni colpa verso il servizio socio-sanitario (che gli porta via il bambino "ingiustamente") oppure verso la propria condizione socio-economica ("siamo poveri ed è per questo che ci hanno portato via il bambino")10, oppure verso il "malanimo" e la "discriminazione" che le istituzioni sociali hanno verso di loro (scuola, polizia, ecc.). Questo succede soprattutto nelle famiglie non socialmente integrate che difendono la loro esistenza con una chiusura di confini che il figlio per la sua stessa natura sociale rompe e quindi diviene elemento di pericolo da reprimere e ricondurre alla funzionalità familiare originaria. In questi casi manca la flessibilità al nuovo che il figlio determina e quindi viene visto come elemento che può distruggere la condizione di isolamento protettivo che la coppia attua per il proprio esistere11.

La famiglia naturale si trova ad essere nella condizione del malato che non riconosce la propria malattia e di conseguenza del paziente più difficile da trattare. A causa di questa sua disposizione l'intervento dei servizi su di essa è alquanto problematico poiché non può reggersi sulla condizione di terapia coatta, imposta12. L'operatore può solo determinare condizioni che suscitino una riflessione a partire dalla privazione del bambino (unico atto coatto compiuto dal tribunale per la salvaguardia del bambino e non per punire i genitori).

In linea teorica il protocollo di intervento degli operatori sociosanitari dovrebbe essere quello di agire nel tempo sulla riflessione, sul riconoscimento dei fatti, sulla volontà di rimediare, sulla accettazione di essere aiutati, sulla guida tutoriale di assistenti sociali, psicologi sulla base anche dei rapporti con la famiglia affidataria o alla famiglia accogliente che funge da appoggio e da riferimento verso una loro autonomia relazionale che permetta il ri-inserimento del bambino13. Questo processo è assai complesso ed esige un lavoro di recupero sociale di alta specializzazione da parte degli operatori, un lavoro in cui il tempo, l'accettazione, la motivazione, le qualità umane e professionali degli operatori sono messe a dura prova14.

Nella buona prassi gli operatori sono agenti di cambiamento sociale, di riferimento costruttivo per i genitori naturali. Nella mala prassi essi divengono i controllori, persone da tenere a distanza, da imbrogliare, da non fidarsi perché fonte di ogni problema. Si noti l'ambivalenza di questa posizione con la possibilità di derive autoprotettive da parte della famiglia naturale che si chiude a riccio perché non vuole essere "aperta", vivisezionata" dall'operatore, ma al contempo con le possibili derive determinate dal servizio che sceglie scientemente il ruolo di controllore senza peraltro determinare alcun vero intervento per migliorare la condizione sociale e relazionale della famiglia naturale. È un intervento difficile che richiede tempo e alta capacità e quindi se l'operatore è impreparato su piano motivazionale o anche professionale, tende a non impegnarsi più di tanto su questo fronte che certamente non è per lui fonte di molte soddisfazioni nel sistema dei servizi psicosociali.

Gli interventi in ambito assistenziale e riabilitativo per la famiglia naturale depauperata dovrebbero prefiggersi due scopi fondamentali. A livello individuale, dovrebbero far tesoro della flessibilità e delle potenzialità di sviluppo e di coinvolgimento attivo del singolo genitore, al fine di mobilizzare le sue risorse in vista del perseguimento di obiettivi autodeterminati. A livello di coppia, dovrebbero offrire adeguate e significative opportunità di integrazione e socializzazione in attività di gruppo guidate15. 

 

Secondo attore: il bambino 

 

È secondo attore solo per motivi cronologici. Nelle nostre storie è, e deve essere, l'attore principale. È tuttavia un attore che raramente si impone sulla scena, che non invoca i tempi e le battute, ma che permea spesso silenzioso ogni atto e ogni intervento degli altri attori e delle figure di contorno (vicinato, scuola, ecc.). In termini psicosociali il bambino è un individuo deprivato dei suoi bisogni fondamentali di formazione, di crescita, di educazione, di affermazione della sua autonoma individualità al presente e di rappresentanza sociale nel futuro16.

Si comprende come il bambino rappresenti un'entità delicata e chiusa che afferma la sua presenza non sulla base di prevalenti atti diretti, ma attraverso azioni e parole che devono suscitare in noi la corretta interpretazione dei suoi bisogni profondi. Sono molte le persone che osservano e curano il bambino e ciascuna fornisce letture interpretative talora differenti perché il dato rilevato, o è manifesto e chiaramente leggibile, o è elicitato dagli interventi di chi gli è attorno e opera per il suo bene17. Per tutti noi il bambino è un concentrato di emozioni, consce o inconsce, che solo la professionalità o l'esperienza permettono di decifrare e mettere a valore.

La difficoltà è nell'interpretare le nostre azioni prima ancora che le sue, la difficoltà di comprendere quanto del nostro agire è determinato dalla nostra visione egoistica o di proiezione del nostro vissuto e quanto è obiettività nel rispetto della sua personalità e delle attese e dei diritti che ha18. Non è facile essere bambini affidati: aver subito il disagio e la violenza, doversi sdoppiare tra due famiglie, tra due affetti, doversi confrontare con gli operatori19. Di chi fidasi? A chi rivolgere il proprio affetto? Bisogna divenire capaci di comprendere ruoli differenti e fare valutazioni delle appartenenze; bisogna accettare che tutti gli occhi siano puntati su di te, ma che si dipende totalmente dagli altri. Si finisce col sentire il bisogno di appartenere, ma non si comprende bene a chi. 

 

Terzo attore: la famiglia affidataria 

 

Nella metafora teatrale la famiglia affidataria è un attore che rimane sulla scena solo per il tempo di un atto, poi non sarà più sul palco, ma semmai verrà evocata (nel bene e nel male). Nella metafora medico-sanitaria abbiamo detto che è la medicina che viene somministrata fintanto che la patologia è in atto. Sul piano sociale familiare l'accoglienza di un minore è un'operazione che coinvolge profondamente i componenti della famiglia e che la renderà diversa. È un'esperienza tanto coinvolgente da determinare forti impatti sia nella prima accoglienza (la nascita) sia durante l'affido (la gestione operativa e la relazione degli affetti) e sia nel rientro del bambino nella sua famiglia naturale (elaborazione del lutto)20. Tutti eventi che rendono la famiglia affidataria fortemente esposta a situazioni di squilibrio che devono essere governate e che pongono talora anche a rischio la vita familiare21.

Questi fattori di rischio hanno sovente acceso l'attenzione degli operatori soprattutto per le derive che la famiglia affidataria (ma anche per quella adottiva) può manifestare: senso di onnipotenza, narcisismo, autoritarismo per sentirsi unica depositaria di valori positivi, ecc. Questi sono rischi che la famiglia affidataria corre, ma che non sono sempre presenti né in termini qualitativi né in termini quantitativi. Va da sé che senso di onnipotenza, narcisismo, ritenersi depositari di valori positivi in piccola aliquota permette di avere un valore di autostima che a sua volta permette di superare le difficoltà. Il punto cruciale è dov'è questo limite. È chiaro che ogni famiglia ha il suo e lo interpreta nel migliore dei modi possibili, ma è altrettanto vero che negare l'esistenza di queste possibili derive sarebbe deleterio per la famiglia e per il bambino accolto22.

Vediamo di risolvere questo nodo che ritengo fondamentale nella vita della famiglia accogliente e nella gestione delle famiglie accoglienti da parte dei servizi psicosociali. Affrontiamo il problema in modo capovolto partendo dalle derive più gravi che la famiglia affidataria può manifestare:

  • Onnipotenza. Ad es. quando sussiste la volontà di voler continuare ad accoglie bambini anche al di sopra delle proprie reali possibilità di gestione;

  • Narcisismo. Quando lo specchiarsi nella propria immagine di perfezione diviene tanto manifesta da soverchiare il lavoro silente di cura che si deve svolgere sul bambino. Si verifica quando diviene manifesto il continuo esaltare la propria abnegazione e le proprie qualità nascondendo insuccessi, difficoltà, dolori, e quindi finendo in una realtà di finzione;

  • Superiorità. È collegata al narcisismo: quando ci si considera al di sopra di ogni confronto mostrando soprattutto quella superiorità che non teme confronto perché “unti dal Signore".

Quando in definitiva si cade in questi eccessi, la famiglia affidataria entra in una sfera patologica che dovrebbe essere immediatamente corretta dal servizio psicosociale. Direi di più, se la famiglia affidataria, invece di sentire ragioni, si avvolge in una spirale di chiusura progressiva nel proprio mondo egocentrico, si dovrebbe togliere loro il minore affidato perché collocato in un ambiente che sicuramente non è adatto ed opportuno alla sua crescita. 

La famiglia affidataria deve essere cosciente di quanto accadrà nel momento in cui accoglierà un minore. L'accoglienza etero-familiare è un intervento di grande delicatezza che sfugge a regole predefinite e deve essere valutato, seguito, espresso, con determinanti differenti da caso a caso: è necessaria grande professionalità da parte degli operatori dei servizi psicosociali e grande flessibilità ed empatia da parte della famiglia affidataria. Questo significa che la conoscenza e l'esperienza devono sempre essere tra loro integrate e l'intervento sul minore diviene necessariamente un atto originale ed unico. Si potrebbe dire che l'affido è un concerto in cui lo spartito (progetto) va scritto e definito con chiarezza, ma continuamente modificato nell'esecuzione e nella concertazione in relazione alle capacità e alle intuizioni dei musicisti che devono introdurre virtuosismi interpretativi, ma non possono prescindere dalle conoscenze tecniche ed esperienziali di base. Come si è detto, l'affido è un'opera “artistica”, frutto dell'operato umano che si base sulla forte e consapevole certezza del sapere. Come per i concerti, l'accoglienza produrrà un risultato che sarà di volta in volta diverso ed originale, come lo sono le interpretazioni “live” dei musicisti. 

 

Quarto attore: la famiglia adottiva 

 

Nell'adozione le difficoltà pratiche di maggiore rilevanza sono due: la prima riguarda il bambino, la seconda riguarda la famiglia adottiva. Entrambe le difficoltà hanno una costruzione che riguarda il contesto: difficoltà burocratiche, tempi stabiliti da iter non costruiti sugli attori dell'adozione, situazioni particolari dei paesi di origine, situazioni particolari della collocazione dei bambini, dispositivi di legge del paese di origine o del paese della famiglia adottante, ecc.

Su queste difficoltà di contesto non voglio soffermarmi poiché sono tutte di natura assai diversa in relazione alla situazione del bambino e del paese di origine. Ritengo che questo argomento trovi larga informazione, anche se spesso con meccanismi difficili da comprendere, in diversi trattati, in internet e ancor meglio sia nei servizi sociali che nelle organizzazioni che seguono queste procedure. Per i fini di questo libro ritengo importante esplorare le difficoltà pratiche che nascono nel bambino e nella coppia adottante.

La coppia che si candida per una adozione è solitamente concentrata nelle difficoltà logistiche tanto da mettere in secondo piano le difficoltà che possono nascere in loro nel momento in cui arriverà il bambino. Non basta infatti desiderare un bambino. Questa motivazione non è sufficiente di per sé per avere nella propria casa un bambino. La motivazione non può ridursi ad una dichiarazione, ma si deve riferire ad un percorso interiore che da un lato è mosso dal desiderio e dall'utopia e dall'altro deve fondare sull'oggettività di una scavo interiore ben più profondo di quello che deve affrontare la famiglia affidataria. L'adozione è per sempre, e questo non lo si deve dimenticare.

Nell'adozione non esiste un periodo di prova sufficientemente lungo da permettere una valutazione profonda di se stessi e del bambino. Il fatto di essere seguiti da un sostegno psicosociale per un anno dopo l'adozione non è di per sé sufficiente in quanto in quell'anno si manifestano solitamente solo le cose migliori per entrambe le parti; sarebbe come valutare l'esito di un matrimonio dopo il primo anno che altro non è che un prolungamento della luna di miele. Nemmeno è pensabile che il bambino possa entrare in una casa in prova e dopo un anno restituito perché non adatto! L'adozione è una strada senza ritorno che esige una coppia ad alta resilienza, fortemente motivata nell'adattarsi alla realtà del bambino, qualsiasi essa sia, e per sempre.

A fronte di queste difficoltà, non insormontabili, ma reali, assistiamo ad un iter che è lungo, ma solitamente poco approfondito sul piano dell'interiorità, ad una idoneità che somiglia ad alcune certificazioni che finiscono con essere, o essere vissute, come una gabella burocratica che si deve fare senza capirne profondamente il significato. Da parte delle famiglie adottande si assiste ad un fastidio nel dover essere valutati e quindi ad un insito disvalore delle valutazioni operate dal servizio sociale. Da parte dei servizi si assiste ad un processo di valutazione obbligatorio senza la possibilità di incidere in modo profondo sulla formazione e sulle caratteristiche della coppia che lascia sempre profondi dubbi di indagine incompiuta e di atto dovuto più che di vera valutazione di idoneità.

Un doppio processo vissuto solitamente da entrambe le parti con rassegnazione (anche se non mancano esempi di analisi e atteggiamenti di compiutezza costruttiva da entrambi i lati). Si noti, inoltre, che nell'adozione l'intervento dei servizi sociali può essere decisivo solo prima dell'adozione, mentre ad adozione avvenuta hanno un anno di sostanziale tutorato con l'ingrato compito di fare una valutazione preveggente di una normalità pur essendo la famiglia in una stato di grazia dal quale difficilmente emergono i punti nodali, le difficoltà.

Gli operatori devono essere capaci di individuale le disarmonie e le difficoltà e le rigidità molto prima che siano evidenti sintomi chiari23; compiuta l'adozione e l'anno di controllo la famiglia adottiva può chiudere qualsiasi canale alla introspezione e vivere come se fosse una qualsiasi famiglia “normale”, mentre non lo è affatto. 

E' noto che le problematicità aumentano con l'età e con la tipologia di origine adottiva, nazionale o internazionale. Si sottolinea la differente cronologia delle fasi evolutive del bambino/ragazzo che assumono carattere di maggiore incidenza nelle adozioni rispetto a quelle presenti in un figlio biologico. La successione delle fasi è la seguente: l'età del ricordo (3-5 anni); l'età dell'assimilazione (5-8 anni); l'età dell'identità (8-11 anni); l'età dell'affermazione (12-18 anni). Ogni fase ha un peso differente, se si confronta la tipologia dell'adozione con la situazione di un figlio biologico. È un gioco ad incastro fortemente determinato dalla resilienza del bambino e della famiglia adottiva. Se sapranno porre a valore le differenze queste esalteranno la positività, se le subiranno esalteranno la negatività.

Si può comprendere che un bambino che viene adottato entro i 5 anni ha la possibilità di passare tutte le fasi evolutive con la famiglia adottiva, mentre uno che entra in adozione a 12 anni può usufruire di un periodo formativo nuovo solo nella fase finale dell'affermazione. Questo non significa che i bambini da adottare devono per forza essere piccoli, ma semplicemente che la famiglia adottiva deve usare strumenti differenti con un ragazzino più grandicello e curare quelle situazioni formative che precedentemente eventualmente non erano state raggiunte in modo adeguato. Oltre i 14 anni (ma anche già da verso gli 11 anni) è necessario avere precauzioni particolari nell'adozione e compiere un periodo di adattamento più complesso che assomiglia a quello dell'affido familiare.

Concentriamoci ora sui casi più frequenti e prendiamo in considerazione dapprima i bambini che vanno da 0 a 3 anni. In questi casi il “trapianto” adottivo è più agevole e addirittura auspicabile per il benessere formativo del bambino.

Potremo dire che in questi casi le problematicità sono tutte concentrate sulla famiglia adottiva e sulle sue capacità di reagire al cambiamento di stato familiare che il bambino adottato determina. Queste famiglie solitamente vivono un periodo assai felice provvedendo ad una formazione e ad una educazione psicosociale ed affettiva del bambino in modo ottimale. Solo nel momento in cui arriverà l'età dell'identità e quindi il naturale desiderio di conoscere chi si è e da dove si viene. La coppia adottiva deve prevedere questo evento e deve prepararlo per tempo in modo da poter rispondere alle esigenze del bambino in relazione ai suoi bisogni di identità. In questa fase l'aver svolto un percorso all'interno di gruppi di famiglie adottive la aiuterà nella soluzione di questa problematicità.

Un altro momento critico si avrà quando arriverà l'età dell'affermazione di se stessi in modo compiuto (14-18 anni). A questa età il desiderio di conoscere le proprie radici e quindi i propri genitori si farà più forte, la famiglia adottiva non si dovrà spaventare, ma dovrà assecondare questo desiderio essendo parte integrante del formare l'identità adulta da parte del ragazzo. Esistono molti esempi di questo cammino anche molto bene espressi in alcune opere non solo psicosociali, ma anche letterarie24.

Sappiamo che per i bambini nati e adottati in Italia, le difficoltà relative alla costruzione della propria identità riguardano prevalentemente la relazione tra famiglia naturale e famiglia adottiva, mentre per l'adozione internazionale si inseriscono situazioni meno chiare e meno ricostruibili in quanto i bambini più grandicelli avranno sicuramente interiorizzato la propria cultura e l'identità etnica. A questa si aggiunge anche un'immagine della realtà del paese che li accoglie molto falsata dai mezzi di informazione (prevalentemente televisione o racconti che sono stati fatti loro).

Non sempre riflettiamo a sufficienza sul lavoro mentale che questi bambini devono compiere da un lato con una situazione che non li soddisfa, ma che è l'unica che conoscono, dall'altro con una situazione mitizzata di avere cose che nel orfanotrofio non hanno. Bisogna considerare con grande rispetto il loro vissuto e la loro necessità dell'investimento narcisistico che il bambino fa verso gli adulti di riferimento. Tradire questo processo determina danni cospicui non facilmente rimediabili successivamente. Il loro è comunque un percorso di abbandono: abbandonati dai genitori biologici (anche se incolpevolmente); abbandonati dai parenti, abbandonati dal collegio in cui sono cresciuti (che in un qualche modo li consegna ad una realtà familiare che non conoscono). Che fiducia possono avere da parte di persone che nemmeno conoscono? Certamente tutto l'apparato delle illusioni che il mondo industrializzato e socialmente evoluto che l'Italia rappresenta è un forte incentivo che spesso si dovrà confrontare con una reale perdita di valori che altrove sono più percettibili. Sarà in quel tempo che i conflitti tra bambino e famiglia adottiva si renderanno evidenti e questo tempo non è preventivabile prima.

Un aspetto da considerare è anche l'immagine che la coppia adottiva ha del paese di origine, spesso stereotipata e spesso negativa per il solo fatto che non sa assicurare ai propri bambini un futuro certo. Le ripercussioni emotive sul bambino giunto in Italia sono innegabili, dagli atteggiamenti dei genitori adottivi stessi sino alla famiglia allargata, agli amici, alle persone con le quali viene in contatto. L'uso stesso dei suoi ricordi è spesso vissuto con poco rispetto. Inoltre si fa, anche inconsciamente avanti il tentativo di "appropriarsi del bambino" allontanando ed escludendo la loro educazione e cultura primigenia quasi fosse sempre e comunque un disvalore da dimenticare quasi a significare che solo attraverso gli adottivi lui potrà essere considerato come persona. Tutto questo azzeramento, voluto o non voluto, determinerà nel bambino un'ansia supplementare, quando non costituirà la “sindrome del quasi adatto”, finendo con esaltare la non integrazione tra passato e presente. Possiamo immaginare quanto tutto questo significa per la fragile autostima del bambino, per la sua insicurezza e angoscia di perdita di ciò che fino a quel momento faceva parte del suo mondo.

Il processo di riparazione al trapianto adottivo potrà avvenire quando i genitori adottivi riusciranno a percepire le difficoltà del bambino, a contenerlo e proteggerlo. Quando, invece, loro stessi divengono insofferenti ai cambiamenti in atto si determina una situazione di fragilità che spesso li porta a considerare solo loro stessi e le dinamiche familiari già note del periodo preadottivo, quasi non fosse accaduto nulla nella loro vita (il padre continua con le sue attività, la partita, il cane, gli amici, ecc.; la madre le amiche, lo shopping, la palestra, il ménage del tutto pulito ed ordinato), allora le cose si complicano. In questi casi il sostegno delle famiglie adottive può fare molto per non essere soli ed avere risorse supplementari nel fronteggiare le situazioni. 

 

Quinto attore: la coralità, famiglie che aiutano famiglie 

 

Con questa espressione si intende una famiglia (tutrice) che aiuta una famiglia in difficoltà. Sul piano etico e psicosociale presenta alcuni vantaggi e alcune difficoltà operative. Il vantaggio è costituito dal fatto che la famiglia in difficoltà può mantenere la sua unità ed i minori possono essere aiutati a crescere nel loro contesto familiare. Inoltre, ha il vantaggio di stabilire (teoricamente) un legame forte e permanente tra le due famiglie; ha anche il vantaggio di essere economicamente meno parcellizzato e più facilmente gestibile da parte dei servizi sociali. Presenta tuttavia lo svantaggio di un forte ed impegnativo carico da parte della famiglia tutrice e un presupposto di solidarietà molto alto sul piano individuale e sociale.

Altre difficoltà sono legate alla effettiva accettazione da parte della famiglia in difficoltà di avere una famiglia tutrice che la segue. Potremmo dire che il presupposto di partenza è molto coinvolgente, ma inevitabilmente si scontrerà con un quotidiano molto complesso dove il riconoscimento del ruolo della famiglia tutrice è alquanto difficile, sia da parte della famiglia in difficoltà, sia da parte del servizi sociali. Essendo il presupposto buono e di possibile percorrenza, bisogna valutare quanto tutto questo entra nelle logiche comportamentali di famiglie e servizi coinvolti.

Appare indubitabile che, come per altre forme di accoglienza, non si può pensare che questa formula sia valida per tutte le situazioni, ma potrà essere una soluzione ottimale per alcuni casi che non trovano soluzione nell'accoglienza per adozione e per affido. Anche per la modalità di accoglienza sociale espressa da famiglie che aiutano famiglie si deve partire dai fondamenti teorici e sperimentali e non dare luogo a situazioni improvvisate.

Recentemente lo spunto metodologico del Marlborough Family Service di Londra ha trovato applicazione in varie forme e tra queste quelle di maggiore concretezza si sono sviluppate dapprima in Piemonte per poi trovare applicazioni e consensi anche in altre regioni del Nord Italia. È una forma che si presta teoricamente alla soluzione di molti problemi coinvolgendo sia i servizi sociali, sia altri gruppi di volontariato che agiscono nel sociale. Come è naturale trovano maggiore applicazione nei centri metropolitani dove sia domanda che offerta trovano una sufficiente risposta numerica da riuscire ad organizzare un servizio congruo. Nelle aree più piccole la domanda non raggiunge un limite di utilità tra costo e beneficio, tenuto anche conto che nei piccoli centri l'offerta, ovvero le famiglie disponibili a questo tipo di accoglienza si riducono alquanto e risultano sparse in un territorio più ampio (in genere a livello provinciale) e questo non aiuta la logistica della gestione del sistema.

Le esperienze condotte in Italia hanno come base comune famiglie multi-problematiche che sono ad alto rischio e ad alto costo per la società. Queste famiglie sono anche caratterizzate dalla difficoltà ad essere raggiunte per poter proporre un intervento organico. Le loro peculiarità sono dovute a fattori plurimi spesso confusamente espressi e comunque border line. La gravità della loro situazione è spesso mal recepita non solo dalla famiglia stessa che ha un forte codice di visione interpretativa della vita, ma anche dalle strutture per la difficoltà dovuta alle categorizzazione degli interventi specialistici che richiederebbero più di una competenza. In queste condizioni chiaramente gli strumenti psicosociali consueti e collaudati non sono sufficienti ed è necessario cambiare metodo operativo.

I rischi di questa soluzione di pratica corale dell'accoglienza sono tutti annoverabili nel sistema gestionale: famiglie difficili da raggiungere e difficili da curare; difficile governo di conflitti tra famiglie e operatori; difficoltà ad aprirsi per timore di diniego, ostilità e segretezza; possibilità di aumento di resistenze al “cambiamento”, aumento di professionisti coinvolti, con molteplici opinioni, paralisi operativa e spesa sociale elevata.

I vantaggi teorici sono altrettanto evidenti e tutti giocati sul confronto tra pari e sul far nascere un senso di appartenenza e di non solitudine che permette un affrancamento sociale.

Pur essendo in Italia i progetti “Famiglie che aiutano famiglie” ancora in fase sperimentale, esistono forme più spontanee e leggere che hanno avuto un'applicazione di costante presenza su tutto il territorio nazionale. Esse nascono spesso come declinazione di differente metodo di accoglienza solitamente affrontato da famiglie esperte già con un passato di forme di accoglienza (affido, adozione, volontariato familiare). Queste forme che nascono in effetti da un volontariato spontaneistico sono state accolte da alcuni servizi come forme possibili e seguite istituzionalmente. Solitamente fanno capo a situazioni logistiche già presenti (sedi di ex collegi e di fondazioni di aiuto a famiglie e minori) che si sviluppano con forme di applicazione adatte ai bisogni del territorio e quindi possiedono la flessibilità di andare incontro alle necessità di quel particolare territorio facendo leva sul volontariato dei singoli e delle associazioni e determinando una possibile risposta a problematicità familiari per le quali i servizi sociali possono farsi carico solo con costi di gestione molto elevati.

 

Fonti 

 

  • 1Cassibba R., Elia L. (2007), L'affidamento familiare, Carocci, Roma; Migliorini L., Rania N. (2008),Psicologia sociale delle relazioni familiari, Laterza, Roma-Bari.

  • 2Fruggeri L. (2005), Diverse normalità. Psicologia sociale delle relazioni familiari, Carocci, Roma; Alte L. (2006), Culla di parole. Come accogliere gli inizi difficili della vita, Bollati Boringhieri, Torino.

  • 3Limone P. (2007), L’ accoglienza del bambino nella città globale, Armando, Roma.

  • 4Aglietti M.C., Cavalli S. (2003), Desiderare un figlio, adottare un bambino, Armando, Roma; Fadiga L. (2003), L’adozione, Il Mulino, Bologna.

  • 5Si noti il paradosso. Nelle società meno evolute il bambino è tenuto ad emanciparsi molto presto, mentre nelle società più evolute la sua emancipazione avviene tardivamente. In questo incidono non solo ragioni economiche, ma di rappresentazione sociale e di formazione (scolarità protratta, tardiva emancipazione economica, ecc.). Questo aspetto è stato sottolineato da molti sociologi: da un lato si tende, ad esempio, a dare precocemente ai giovani alcune autonomie (uso dei veicoli, voto politico, libertà di spesa, libertà sessuale, ecc.) salvo poi invocare interventi legislativi che ne cautelino gli eventuali eccessi o distorsioni. Con una mano si dà e con l'altra si prende, senza porre in mezzo il tempo e la dedizione formativa familiare e istituzionale. Per un approfondimento sul tema si veda: Ingrosso M. (2003), Senza benessere sociale. Nuovi rischi e attese di qualità della vita nell'era planetaria, Angeli, Milano.

  • 6Si noti un altro paradosso. Mentre in passato era fatto comune che i parenti (zii, soprattutto) si facessero carico dei figli di congiunti deceduti o impossibilitati a svolgere le funzioni genitoriali (malattie o guerre), oggi questa disponibilità è assai ridotta. Si preferisce l'intervento del servizio sociale al farsi carico dei figli dei parenti.

  • 7Boffo V. (2005), Attaccamento e formazione. Unicopli, Milano; Cassibba R., van Ijzendoorn M. (a cura di) (2005), L’intervento clinico basato sull’attaccamento. Promuovere la relazione genitore-bambino, Il Mulino, Bologna.

  • 8Cirillo S. (2005), Cattivi genitori, Raffaello Cortina, Milano; Tessarolo M. (2005), Vecchi e nuovi bisogni delle famiglie in un mondo in trasformazione. In Cusinato M., Panzeri M. (a cura di) (2005),Interventi e valutazione nel lavoro con le famiglie. pp. 23-38, Il Mulino, Bologna.

  • 9L'accoglienza musicalmente somiglia più a una jam session jazzistica che a un contrappunto barocco. L'elemento interpretativo prevale rispetto allo spartito, dato che l'improvvisazione è alla base dell'unicità dell'intervento.

  • 10Si sa quanto questo sia falso perché nessun operatore scientemente opera con questa intenzione. Sappiamo che possono esserci errori, ma questa condizione è statisticamente assai rara. Si veda: Cirillo S., Cipolloni M.V. (1994), L'assistente sociale ruba i bambini?, Cortina, Milano.

  • 11CISMAI (2005), Linee-guida per la valutazione clinica e l’attivazione del recupero della genitorialità nel percorso psicosociale di tutela dei minori, in http:- //www.cismai.org

  • 12Guidi D., Carini R. (1995), La famiglia naturale da cancellare o da condividere, in Saviane Kaneklin L., Adozione ed affido a confronto, Angeli, Milano.

  • 13Cassibba R. (2003), Famiglie biologiche, affidatarie e adottive: costruzione e ricostruzione dei legami di attaccamento. Infanzia e Adolescenza in Puglia, Regione Puglia, pp. 33-43, Istituto degli Innocenti, Firenze.

  • 14Di Blasio P. (2005), Tra rischio e protezione. La valutazione delle competenze genitoriali, Unicopli, Milano.

  • 15Sul piano del metodo si veda: Vaccaro A.G. (2003), Abilitazione e riabilitazione, McGraw-Hill, Milano; Bello F., Mannu J., Baroni E. (2008), La riabilitazione psicosociale tra riparazione del danno e promozione della salute: lo strenghts model, Psichiatria e Psicoterapia, 27, 4, 283-291.

  • 16Greco O., Iafrate R. (2001), Figli al confine: una ricerca multimetodologica sull’affidamento familiare, Angeli, Milano.

  • 17Dell'Antonio A. (1992), Avere due famiglie. Immagini, realtà e prospettive dell’affido etero familiare, Unicopli, Milano.

  • 18Di Blasio P. (2000), Psicologia del bambino maltrattato, Il Mulino, Bologna.

  • 19Di Blasio P. (2005), Tra rischio e protezione. La valutazione delle competenze genitoriali, Unicopli, Milano.

  • 20Guida M. G., Kaneklin S. L. (1993), Conoscenza della famiglia affidatario e ipotesi d’abbinamento, in AA.W. (a cura di). Affido familiare. Approfondimenti teorici e metodologici di un percorso. Quaderni di Psicoterapia Infantile, Borla, Roma.

  • 21A questo proposito si segnala un'opera molto ricca di suggerimenti, anche se svolta su una realtà diversa da quella italiana: Martin J. G. (2000), Foster Family Care. Theory and Practice, Allyn & Bacon, Boston.

  • 22Pistacchi, P., Galli J. (2006), Un viaggio chiamato affido. Un percorso verso la conoscenza dei soggetti e delle dinamiche dell'affidamento familiare. Unicopli, Milano.

  • 23Migliorini L., Rania N. (2008), Psicologia sociale delle relazioni familiari, Laterza, Roma-Bari.

  • 24Tra i tanti esempi si veda il recente: Schinkel A. (2009), Figlia della seta, TEA, Milano.

 

ESTRATTO DAL BLOG CRESCERE FIGLI ALTRUI http://crescerefiglialtrui.typepad.com/

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