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L'Affido

 

 

 

Aspetti generali

 

L’affido familiare è un provvedimento temporaneo mediante il quale un minore viene accolto presso una famiglia, o ad una singola persona, nel caso in cui la famiglia di origine sia in una fase di difficoltà e non riesca a garantire il soddisfacimento dei bisogni del minore. I motivi per cui viene generalmente adottato questo provvedimento sono legati ad una malattia, alla detenzione, a motivi di tossicodipendenza o di ordine educativo, che possono realizzarsi in casi di molestie sessuali da parte di familiari. L’istituto è regolamentato dalla Legge n.184 1983 come modificata dalla Legge n.149 2001. Nel caso in cui non sia possibile a procedere all’affidamento familiare il minore in stato di necessità, può essere affidato a comunità. In questi casi si parla di affidamento di minori in strutture. La Legge 28 marzo 2001, n. 149 ha decretato la chiusura degli orfanotrofi al 31 dicembre 2006. Pertanto, per questi casi di affidamento, la legge attuale prevede che il minore venga accolto in strutture di tipo familiare, come le case famiglia. 

 

Caratteristiche. L’affido familiare può essere:

  • giudiziale, nel caso in cui sia disposto dai servizi sociali e adottato tramite un provvedimento del giudice tutelare;

  • consensuale, nel caso in cui sia condiviso e approvato dai genitori. Nel caso di affido consensuale il dispositivo può contenere indicazioni per cui si abbia un affido part-time, limitato cioè ad alcune parti della giornata, o ad alcuni giorni della settimana.

 

L’affido si distingue anche sulla base delle famiglie affidatarie in:

  • affido a familiari, nel caso gli affidatari siano familiari entro il quarto grado di parentela; 

  • affido a extra-familiari, nel caso non vi sia legame familiare tra il minore e la famiglia affidataria. 

 

Le caratteristiche di questo provvedimento sono:

  • la temporaneità. L’affido familiare non è definitivo e il minore, a differenza dell’adozione, non ha lo status di figlio;

  • il mantenimento dei rapporti con la famiglia di origine dato che il legame genitoriale non viene modificato;

  • il rientro del minore nella famiglia di origine. Al termine della fase che impediva alla famiglia originaria di occuparsi del figlio questi torna a farne parte. 

 

Affido sine die

 

L’affido è caratterizzato dall’essere un provvedimento temporaneo, la cui durata non dovrebbe superare i due anni, nel caso dell’affido consensuale, o comunque il periodo temporale indicato nel provvedimento del tribunale, nel caso di affido giudiziale. Nella pratica, spesso accade che non si realizzino le condizioni per cui il minore possa rientrare in famiglia, per cui un affido consensuale si trasformi in giudiziale, o che un provvedimento di affido giudiziale venga reiterato, rendendo di fatto l’affido un fatto non più temporaneo ma duraturo nel tempo. In questi casi si parla di affido sine die. L’affido sine die non rientra nell’ordinamento giuridico italiano, ma è quella situazione di fatto per cui un bambino in affidamento non può rientrare nella propria famiglia di origine e, pur mantenendo rapporti con uno o più familiari, resta nella famiglia affidataria sino al compimento della maggiore età. Questa situazione si verifica di fatto per circa la metà degli affidamenti.

Alcuni tribunali  tentano di dare, in via sperimentale, una veste giuridica a questa situazione, con il nome di “adozione mite”. 

 

I dati e i dispositivi dell’affido in Italia.

 

Con affidamento familiare si intende l’accoglienza di un bambino i cui genitori abbiano delle momentanee difficoltà e necessitino di aiuto. In questi casi si garantisce al bambino una situazione serena, all’interno di una famiglia affidataria, e parallelamente si avvia un percorso di aiuto alla famiglia di origine, finalizzato a ricreare una situazione di serenità per il bambino preparando un suo più o meno graduale rientro in famiglia.

 

L’affidamento può essere consensuale o giudiziale. Nel primo caso la durata è stabilita al massimo in due anni, è rinnovabile dal Tribunale dei Minori ed è un accordo tra servizi sociali, famiglia di origine e famiglia affidataria. L’affidamento giudiziale è invece deciso dal Tribunale e cessa quando vengono meno i presupposti che lo hanno determinato. Contrariamente all’adozione, possono accedere all’affidamento anche i single e non ci sono limiti di età. In casi speciali dall’affidamento si può passare all’adozione, all’adozione mite o all’affido sine die. 

 

Anche l’adozione speciale a volte non recide i rapporti con la famiglia d’origine: il ragazzo legalmente risulta nato dai propri genitori naturali e adottato dai genitori adottivi e perciò figlio adottivo a tutti gli effetti. E’ però facoltà del tribunale permettere o meno incontri con i genitori naturali, dei quali rimane erede.

 

L’affidamento internazionale, infine, non esiste come norma giuridica. Con questo termine si usa intendere l’ospitalità temporanea dei bambini provenienti dall’estero per motivi di studio, di vacanza o per cure mediche. 

L’affidamento familiare rimane socialmente un risorsa importante la cui applicazione torva spesso difficoltà per inappropriata gestione dei servizi in alcune zone d’Italia, per insufficiente preparazione delle famiglie affidatarie, per la cattiva prassi di usare l’affido come surrogato all’adozione (quindi spostando il bisogno dal minore che cerca famiglia alla coppia che cerca un figlio). Gli interventi a livello regionale sono stati spesso di grande rilevanza. 

 

 

Affido etero-familiare

 

 

Per capire l’affido dobbiamo capire la sua differenza nella pratica con l’accoglienza e con l’adozione. Adozione ed affido sono due processi di solidarietà e di tutela verso i minori che hanno un ruolo sociale importante, ma diverso e non sovrapponibile. Per fare una analisi di confronto si deve partire dalla legge, ma anche dalla prassi e dalle derive comportamentali che mezzi di informazione, opinione diffusa e operatori talora compiono. La legge è molto chiara nel definire l’adozione e l’affido: nel primo caso il minore diverrà di fatto figlio della coppia adottiva a tutti gli effetti, nel secondo caso si chiede un intervento temporaneo di tutela con un lavoro per favorire il rientro dal minore nella famiglia naturale. 

 

Queste definizioni lapidarie cozzano però contro una pratica e una realtà di situazioni:

 

  • grande numero di famiglie che chiedono l’adozione di minori in tenera età

  • grande numero di minori problematici (adolescenti, portatori di disabilità, di etnie differenti, ecc.) in condizione di adozione che non trovano famiglia adottiva

  • piccolo numero di famiglie affidatarie disponibili rispetto ai casi da risolvere.

 

Questo stato di cose determina situazioni di deriva comportamentale professionale/umana e per difficoltà oggettive nel provvedere alla tutela:

 

  • elevato numero di minori di età pre-adolescenziale e adolescenziale in strutture protette con necessità di ricorrere a “sine die”(ovvero affido di cui non si prevede a priori un ritorno nella famiglia naturale);

  • elevato numero di casi di insuccesso dell’adozione e ritorno del minore nel comparto dell’affido per garantirne la tutela;

  • elevato numero di coppie senza figli che si rivolge all’affido dopo aver sperimentato con insuccesso la via della adozione;

  • operatori che, visto lo scarso numero di minori disponibili per l’adozione, invitano impropriamente le coppie a convergere verso l’affido.

 

La legge è chiara: compito primario degli operatori è la tutela del minore. Il programma di tutela comincia con un approfondito esame della coppia che dovrà tenere il minore presso di sé per sempre o per un periodo determinato. I parametri di selezione ai quali l’operatore deve fare riferimento sono gli stessi sia per la coppia adottiva sia per quella affidataria:

 

  • L’affettività e la maturità affettiva, la risonanza emozionale dell’individuo, la capacità di tenerezza, di comunicazione e di contatto.

  • La capacità dell’individuo di interagire con il mondo esterno.

  • La facilità ai rapporti a qualsiasi livello di età.

  • L’atteggiamento positivo verso le cose nuove e la duttilità.

  • L’autonomia intesa come raggiungimento della maturità sia nelle capacità decisionali, sia nell’assunzione di responsabilità, ma soprattutto nella indipendenza personale basata sull’autostima, che permette di difendere le proprie scelte.

 

Sia per l’adozione che per l’affidamento, l’operatore deve approfondire le motivazioni alle due scelte differenti sul piano sostanziale e gestionale. Infatti, se molte possono sembrare le analogie, in realtà sono profonde le differenze. Mentre i genitori adottivi desiderano innanzitutto un figlio “proprio”, gli affidatari si offrono per avere temporaneamente cura di un bambino. Il fine dell’affidamento non è quello di avere un bambino “proprio”, ma quello di ricondurlo al suo nucleo originario, dopo aver rafforzato e stimolato la sua personalità con un “rafforzamento dell’io” e avergli dato l’apporto di identificazioni genitoriali positive o aver ottenuto un effetto terapeutico. 

Per poter ben operare gli affidatari debbono possedere una istintiva fiducia nelle potenzialità e nelle capacità di cambiamento di un bambino che ha sofferto, e saper creare con lui un rapporto valido, ma non esclusivo (come invece si verifica con le adozioni). In questo senso sono senz’altro da preferire per l’affidamento le famiglie con i figli propri a patto che la decisione sia condivisa da tutti i componenti del nucleo familiare. Ai genitori affidatari si chiede di fare semplicemente da papà e da mamma temporanei, ma anche di avere una maturità sociale e una disponibilità differente rispetto a quella che si riscontra nelle adozioni, nelle quali si lavora sul senso innato di avere un figlio “proprio”. 

 

Continuando nelle analisi delle differenze, se da una parte la coppia adottiva deve sempre tenere presente che il figlio adottivo porterà con sé tracce del trauma dell’abbandono, avremo per il bambino affidato quello dell’angoscia legata alla separazione, che non è mai definitiva e che si ripropone continuamente. In ambedue le forme di genitorialità non naturale, i nuclei familiari debbono essere capaci di accettare il “passato” del bambino, precedente al suo inserimento in famiglia, e debbono essere capaci di rispettare la sua “storia”, ma anche qui la differenza è enorme perché mentre il “passato” dell’adottato è un evento concluso, il “passato” di un bambino in affido rappresenta, in un qualche modo, anche il suo futuro. 

 

Agli affidatari, come agli adottivi di minori grandicelli, si chiede di essere così equilibrati da saper sopportare meccanismi regressivi, di rifiuto, di provocazione o di adattamento passivo del bambino stesso. Agli affidatari si chiede anche di sopportare la contemporanea aggressività della famiglia di origine e che sia consapevole del suo ruolo equilibratore, in modo da consentire al bambino che ha accolto, la possibilità di continuare ad accettare ugualmente le due famiglie, le due madri, i due padri, senza sentirsi costretto a rifiutare una delle due per scegliere l’altra. 

 

Negli affidi e nelle adozioni, le maggiori difficoltà sono legate alla previsione di quel che accadrà con l’ingresso del minore nella nuova famiglia. Per l’adozione il lavoro degli operatori si conclude con l’inserimento definitivo del bambino (salvo esplicite richieste); per l’affidamento il lavoro continuerà perché la famiglia affidataria dovrà essere seguita e sostenuta nel suo compito. 

Concludendo, per le ragioni sopra riportate contestiamo quegli operatori che con superficialità convertono le domande di adozione non esaudite, in domande di affidamento familiare. Questa deriva professionale rimane quella che è: una operazione professionalmente a rischio permeata di molte incognite. A mio avviso, l’operatore potrà vagliare questa ipotesi solo dopo aver compiuto attente valutazioni in regime di eccezionalità di condizioni, con la consapevolezza che quella famiglia andrà nuovamente e lungamente preparata e poi seguita con un lavoro più attento del solito. 

 

Aspetti specifici

 

L’affidamento familiare rappresenta una preziosa opportunità, all’interno di un ventaglio più ampio di interventi psico-sociali a favore della famiglia che spaziano dal momento preventivo, all’animazione e alla socializzazione, al sostegno, al trattamento specialistico, in grado di ridurre al minimo il ricorso all’istituzionalizzazione dei bambini. 

Da quando si è caratterizzato come istituto giuridico questa forma di aiuto ai minori che vivono in famiglie temporaneamente in difficoltà, è diventata uno strumento cruciale di tutela, recupero e promozione. Una risorsa dalle grandi potenzialità ma anche da “maneggiare” con cautela per la complessità e delicatezza, per la pluralità degli attori, per la sua intrinseca intensità emotiva. 

 

L’affidamento familiare consensuale (quindi non giudiziario) presuppone un’integrazione delle cure che il bambino riceve dai propri genitori con quelle offerte da un’altra famiglia, in una casa diversa dalla propria. Due famiglie, quindi, condividono la responsabilità di base qual il sostentamento, la protezione, la socializzazione e l’educazione.

 

Per definizione l’affido è un intervento temporaneo, salvo eccezionalità. Inoltre, l’affido è un intervento traumatico e può:

 

  • Potenzialmente apportare novità, crescita e arricchimento, ma essere anche stressante e doloroso;

  • Essere in molti casi il male minore, che tuttavia va, dove possibile, prevenuto per la salvaguardia del diritto del minore ad avere in primis la sua famiglia.

 

L’affido è uno strumento sofisticato e ha:

 

  • Un progetto e una gestione complessi con precise indicazioni e controindicazioni;

  • Necessità di una pluralità di figure preparate e integrate per dare risultati stabili.

  • Significato di alternativa alla famiglia naturale e che deve prevedere il suo recupero.

  • Il limite, per le assistenti sociali, di un uso assistenzialistico che lascia inalterate le difficoltà di fondo.

  • Il limite, per gli psicologi, di una prassi caratterizzata dalla routine, con continue tentazioni di fuga dal lavoro “sul territorio”, verso la psicoterapia privata, vista come unico contesto in cui sia possibile la creatività e la sperimentazione.

 

La delicatezza dell’istituto dell’affido coinvolge fortemente la famiglia affidataria, e questo è bene che si capisca sin dall’inizio. L’affido come l’accoglienza si basa su tre rischi: del provvisorio, del casuale e dell’emergenza. Nel caso dell’affido, tuttavia, si hanno più profonde implicazioni. Bauman ha dimostrato come esista nell’affido un aumento di drammaticità sino ad una assunzione di responsabilità che assomiglia alla nascita di un figlio. Un aspetto che per alcuni lati si rivela pericoloso perché si tratta pur sempre di un bambino figlio d’altri e una radicazione affettiva ed emotiva così profonda può sconvolgere la stessa natura dell’affido. 

La famiglia affidataria rappresenta una soluzione per numerosi casi di multi-problematicità familiari dei nuclei di origine per quel che concerne i compiti di cura e di educazione dei minori ma fondamentale per i minori, in quanto valida alternativa a istituti e comunità che, per quanto cerchino di riprodurre il calore e i significati della funzione genitoriale, ne rappresentano solo dei meri sostituti. Tuttavia le famiglie affidatarie non sono esenti da difficoltà e fragilità a partire dalle motivazioni che le portano a formulare un progetto di generatività sociale. Infatti, tali famiglie offrendo la loro disponibilità ad accogliere un minore, possono esprimere indirettamente anche bisogni legati a dinamiche familiari e relazionali, che non sempre collimano o trovano risposta nel comportamento altruistico legato all’esperienza dell’affido.

 

Inoltre, le famiglie affidatarie si trovano ad affrontare, accanto ai compiti evolutivi genitoriali tradizionali nei confronti dei figli biologici, un insieme complesso di compiti evolutivi propri della famiglia affidataria che si possono articolare nel:

 

  • condividere il progetto di affido con i figli naturali, in rapporto all’età, con le proprie famiglie allargate e il proprio contesto relazionale;

  • curare l’inserimento del minore all’interno del nucleo familiare, bilanciando attenzioni e risorse fra i figli;

  • sviluppare una relazione genitoriale, attraverso un legame che dia al minore anche lo spazio di elaborazione del rapporto con la famiglia di origine, inserendosi nella dinamica emotiva del figlio «tra due famiglie», e cercando, per quanto possibile, che egli possa accettare e comprendere la propria famiglia naturale o/e l’eventuale vissuto problematico con essa;

  • rapportarsi in modo equilibrato con la famiglia naturale del minore, laddove sia possibile o richiesto;

  • rapportarsi con i servizi da cui trarre sostegno e guide per le problematiche legate al minore

  • affidato e alle dinamiche familiari che si sono create e per i rapporti con il minore in relazione alla sua famiglia naturale;

  • rapportarsi con la rete di famiglie affidatarie che rappresenta una risorsa per quanto riguarda la possibilità di confrontarsi sulle specificità dell’esperienza dell’affido;

  • separarsi dal minore, che rappresenta un compito eccezionalmente delicato, durante la fase di distacco/allontanamento dal nucleo familiare affidatario, sia nel caso di rientro nella famiglia naturale, sia in un processo di accompagnamento ad una autonoma adultità

 

Riflessioni

 

 

Nell’accogliere entriamo in un mondo sconosciuto in cui tutte le relazioni devono essere sperimentate personalmente. Nella nostra società, organizzata ed efficiente, molti compiti che una volta si riflettevamo sui genitori sono oggi delegati, anche se impropriamente: esiste il rischio della delega, rischio subdolo in cui nel frenetico vivere spesso si incorre. Un esempio. La scuola educa, ma questo non significa che i genitori per questo sono esonerati dalla cura all’educazione dei figli. Ancora, alla sanità abbiamo delegato la salute dei nostri figli, ma non ci esime dalla loro cura per il loro benessere, E ancora, la tata ci sostituisce quando noi non possiamo essere presenti con i nostri figli, ma non ci solleva dallo svolgere i compiti primari della mamma e del papà. Il rischio della delega comporta anche derive…che fanno dire: “il tempo che dedico a mio figlio è poco ma è altamente qualitativo”. Frase infelice e presupponente perché il figlio ha proprio bisogno del tuo tempo, della tua dedizione, della tua cura, nei silenzi, nel conversare quieto senza limiti, nella presenza attiva e passiva. prima di intraprendere un cammino di accoglienza, qualsiasi esso sia, è necessario fare un bilancio del nostro tempo e delle nostre priorità: i nonni non bastano, le tate non bastano, la scuola non basta, le attività sportive o sociali non bastano……. 

 

  • Affidamento vuoi dire infatti entrare in rapporto con tutto “l’altro” che il bambino presenta come storia individuale e familiare; vuoi dire entrare nel suo mondo per cercare di comprenderlo e non per giudicarlo. È un’esperienza che va in direzione diametralmente opposta a quella del possesso. "L’affidamento familiare è sempre un trapianto e come tale può provocare anche reazioni di rigetto“. La psicologa Vittoria Sanese è molto esplicita nel mettere in guardia le famiglie dalle possibili reazioni psicologiche imprevedibili che possono scattare nel momento in cui fanno un’accoglienza al loro interno. 

 

L’esperienza conferma questa problematicità che deve indurre non a rinunciare alla scelta, ma semmai a prepararsi con scrupolo ed a ricercare e pretendere le relazioni ed il sostegno giusti. Tra i rischi principali, ben noti a chi ha ormai una lunga esperienza in materia, c’è una eventuale motivazione sbagliata, quali una speranza di risposta a problemi personali o della famiglia, una motivazione solo sociale o la ricerca di soddisfazione. Queste motivazioni da sole sono pericolose per sé e per chi è accolto e non bastano se non sono accompagnate da una presenza chiara di sentimenti originari fondamentali che debbono essere alla base della famiglia, sempre, in tutte le sue relazioni interne e non solo in caso di accoglienza di un nuovo membro proveniente dall’esterno. Sentimenti fondamentali quali l’amare, onorare ed accettare l’altro per quello che è e non per quello che vorresti. 

 

La famiglia affidataria deve sempre stare in guardia dai rischi di sentirsi onnipotente e capace di affrontare tutte le situazioni; di vedere la famiglia d’origine come pericolo; dal gravare l’affidato di attese e missioni troppo onerose come il volerne un recupero repentino e totale o pretendere di recuperare attraverso di lui propri fallimenti e frustrazioni. Non è né opportuno né utile cedere alla tentazione di caricare di un eccesso di interventi l’affidato. L’efficacia non sta negli interventi che a volte rendono infelice l’accolto, ma “è la struttura in sé della famiglia che libera e l’educazione e la formazione avviene per osmosi e non per intervento o attraverso le parole” (che peraltro incidono nella comunicazione per non più del 5%). 

 

L’affidamento è dunque l’affermazione di un diritto, quello di “salvare” un bambino con la sua famiglia, in attesa di un cambiamento di quest’ultima. In quest’ottica diventa compito della società sostenere le famiglie affidatarie perché, attraverso la creazione di legami solidali, danno forme concrete a un nuovo modello familiare in grado di reggere le sfide della società complessa. 

 

 

Aspetti specifici

 

Data l’importanza del ruolo che la famiglia affidataria riveste è interessante comprendere le dinamiche e il funzionamento di tale tipologia familiare che potrebbero in alcuni casi esacerbare i problemi comportamentali ed emotivi dei bambini in affido, così come risulta rilevante indagare comportamenti e soluzioni che potrebbero prevenire e mitigare problematiche future. 

 

I parametri da valutare nell’esperienza di affido sono: il comportamento genitoriale, il clima e il funzionamento familiare e coniugale. Inoltre, un’area di estremo interesse per comprendere il funzionamento delle famiglie affidatarie è quella legata ai rapporti tra il minore in affido e gli altri figli naturali della coppia e ai significati che questa esperienza riveste per la famiglia e per l’individuo. 

 

Le famiglie affidatarie si caratterizzano come composte da una coppia coniugale in cui nella maggioranza dei casi gli uomini hanno un’età compresa tra i 36 e i 45 anni, mentre per le donne l’età si abbassa leggermente.

E’ possibile ipotizzare che gli affidatari si sentano pronti ad affrontare il percorso dell’affido in una fase più avanzata del ciclo di vita, quando si è raggiunta una maggiore stabilità lavorativa e per questo le energie sono meno focalizzate sull’affermazione sociale del sé, e vi può essere anche lo spazio per l’apertura verso il sociale.

Molte coppie, infatti, affrontano l’affido in presenza di figli naturali abbastanza grandi al fine di poter dedicare energie fisiche ed emotive al nuovo arrivato. Inoltre, la presenza di «fratelli» più grandi può’ aiutare il bambino affidato a non sentirsi in competizione con i figli naturali della coppia; questo tuttavia non tutela del tutto dalla possibilità che abbiano luogo reazioni di gelosia. 

 

 

 Il Dare

 

Nell’accoglienza di minori e di adulti, come anche nell’affido e nell’adozione, è necessario porsi consciamente delle mete. Accogliere un minore o un adulto significa anche porsi una responsabilità formativa e accettare di essere al contempo formati. Accade il medesimo processo con i figli naturali: essi sono formati nella famiglia e la famiglia è da loro formata. La differenza sta nel fatto che nella famiglia naturale i fatti hanno un impatto “naturale” e stemperato dalla normalità degli avvenimenti, dal succedersi degli eventi entrati nella costituzione sociale e culturale della piccola comunità chiamata famiglia (che ha un suo passato e un suo vissuto condiviso). Nel caso dell’accoglienza, in tutte le sue forme, l’impatto empatico è molto forte e meno “normale”. Il passato ed il vissuto dell’accolto deve essere condiviso e il passato e il vissuto della famiglia deve entrare a far parte del bagaglio dell’accolto. Un passaggio delicato formato sul fronte interno familiare da legami deboli che nel loro insieme formeranno la base dell’accoglienza reciproca. Sul fronte esterno invece la famiglia e l’accolto sono per realtà sociale controcorrente rispetto alle altre famiglie. Questa evidenza può porre la famiglia accogliente in maggiore evidenza gratificativa, alimentando la sua autostima, ma al contempo contiene il germe del narcisismo e dell’ambiguità nascosta nell’altruismo. Nell’accolto rimane sempre il problema delle proprie radici e della continua necessità di rivisitare il suo passato per rimodellarlo per se stesso e per i legami affettivi, formativi e culturali che ha acquisito. 

 

Nota di commento. 

 

Vi è necessità di porsi mete formative che istruiscano il nostro agire giorno per giorno: devono essere generali, tanto generali da essere essenziali. La domanda nel dare è la seguente: cosa vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli? 

 

 La capacità di essere autonomi

 

Non per disponibilità economica, perché quella semmai viene dopo, ma la capacità di fare scelte secondo la propria natura, secondo le proprie capacità e le proprie disabilità. Questo tema può ovviamente essere molto dilatato; mi limiterò ad una sola riflessione sul dare. I nostri figli devono essere capaci di decidere autonomamente (che non è…. ora faccio quello che voglio..). Come ha chiaramente espresso Tuggia (2008) decidere significa, primariamente, “uscire da noi stessi”: la decisione si alimenta da un bisogno, da una mancanza… forse per questo oggi non si decide volentieri, in una società in cui l’eccesso di opportunità paralizza perfino il sogno. Per una riflessione più strettamente educativa sottolineo alcuni elementi: il sé: ci si deve conoscere per decidere o, quantomeno, la decisione ti spinge drammaticamente a farlo. Ogni scelta compone o ricompone la nostra biografia:

continuità e discontinuità, coerenza e tradimenti sono passaggi necessari di ogni vita;

la traiettoria: è la direzione della scelta, è la valutazione della direzione, la quantità delle nostre forze. Individuare una traiettoria significa anche fare i conti con i vincoli, gli attriti, le resistenze;

la progettazione: è la capacità di pensare e attuare un piano d’azione, facendosi carico della capacità di convivere con l’ambiguità e la complessità che abitano il nostro mondo, superando l’orizzonte spesso angusto dell’utilità soggettivamente attesa, di uno sguardo senza prospettiva. Educare alla decisione presuppone oggi una percezione sofisticata delle sfumature, la consapevolezza della molteplicità delle prospettive, l’umiltà di muovere un passo senza la pretesa della definitività. 

 

La capacità di perseguire la qualità

 

Educare alla qualità è molto difficile perché si basa non sulle parole ma sull’esempio e sulla coerenza delle persone significative per l’accolto. Non sono i sermoni che radicano la rettitudine, ma l’esempio e la coerenza nel vivere quotidiano. Oggi è anche difficile parlare di rettitudine. Questa è una parola obsoleta non solo perché richiama l’osservanza di precetti familiari che non esistono più ma semplicemente perché oggi la rettitudine non si esprime con concetti apodittici determinati da un norma ma da pensieri a rete che si intersecano e rendono multifattoriale non solo l’analisi, ma anche le conclusioni (basti pensare al conflitto tra etica politica e sobrietà personale, tra amore e sessualità, tra editti pro-famiglia di alcuni politici e distruzione della propria in uno sfilacciamento di perdonismo maschilista, anche nella senilità). Le contraddizioni del nostro vivere mettono a dura prova questa meta formativa anche nello specchio magico della famiglia, soprattutto perché la nostra società oscilla nel mettere a valore i fatti, le opinioni, le convinzioni con molta elasticità opportunistica che difficilmente possono essere comprese da un bambino, ma anche da un adulto di altra cultura. Lo stesso impianto multiculturale determina non più “verità” dogmatiche, ma necessità di fare scelte personali, di chiarire distinguo (oggi si dice di declinarle….), che di volta in volta hanno semi di opportunità o di qualità molto variabili. Per questo oggi essere genitori è difficile, più difficile che in passato quando il compito primario dei genitori era la sussistenza familiare (si, lo so, ora non si muore di fame e allora si.., ma ora si muore dentro e allora forse meno).

Aspetti specifici. Le famiglie affìdatarie rappresentano per la collettività una vera e propria risorsa, in molti casi l’unica risposta possibile a situazioni di criticità di minori e di famiglie: esse possono essere considerate una soluzione idonea, flessibile e affettiva. La famiglia affidataria, infatti, fornisce un ambiente sicuro per un bambino che non può vivere temporaneamente nella propria famiglia per problemi dei genitori. Accogliere un bambino «come figlio» all’interno della propria famiglia rappresenta la sfida principale cui cerca di rispondere l’affido familiare. L’affidamento familiare presenta, infatti, aspetti peculiari, che pongono i figli in affido «al confine» tra due appartenenze familiari e la funzione dei genitori «al confine» tra genitorialità e generatività sociale. In senso positivo, la famiglia affidataria deve, per difficile che sia, accettare la famiglia d’origine così com’è, senza giudicarla o pretendere di “redimerla” o cambiarla (meglio se avviene anche con il contributo della famiglia affidataria, ma non rientra negli obiettivi fondamentali dell’affidamento), deve accettare e rispettare l’accolto con il suo passato ed i suoi limiti; onorare, rispettare e salvare sempre le figure materna e paterna che lo hanno generato; accettare, anzi permettere e favorire, le regressioni che si verificano obbligatoriamente nelle fasi di recupero; saper creare l’ambiente affettivo terapeutico commisurato alle esigenze dell’accolto con la pazienza adeguata ai tempi necessari. 

 

 

Fonti

  • Bruni A., Manuale per famiglie controcorrente. L'accoglienza familiare tra teoria e pratica, Edizioni Psiconline, 2011

  • Greco, O., Jafrate, R. Figli al confine. Franco Angeli. 2001.

  • Pistacchi, P, Galli J., Un viaggio chiamato affido. Edizioni Unicopli. 2006.

  • Cassibba, R., Elia, L. L’affidamento familiare. Carocci Editore. 2007.

  • Migliorini, L., Rania, N. Psicologia sociale delle relazioni familiari. Editori Laterza, 2008. 

 

 

ESTRATTO DAL BLOG CRESCERE FIGLI ALTRUI http://crescerefiglialtrui.typepad.com/

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